BIOPOLIMERI E INDUSTRIA: IMBALLAGGIO & COSMETICA
Pubblicato il: 20/05/2021
Analizzando le statistiche mondiali, il settore dell’imballaggio è, per consumo annuo di materie plastiche, dominante rispetto a qualsiasi altro segmento industriale (es Costruzioni o Automotive), in ogni Paese.
Considerando che ogni anno vengono prodotte globalmente c.ca 360 milioni di tonnellate di polimeri e che più del 40% di questa enorme quantità di materie prime viene assorbita proprio dal settore dell’imballaggio, si capisce che stiamo parlando di oltre 140 milioni di tonnellate/anno.
Una quantità davvero significativa di polimeri utilizzati per la produzione di sistemi di protezione (imballi) primari e secondari, di alimenti, medicinali, cosmetici e manufatti di ogni genere.
Una quantità che è prevista in costante crescita, a causa delle crescenti esigenze igieniche evidenziatesi negli ultimi anni, nonché per la crescita del comparto alimentare.
Sempre analizzando le statistiche delle produzioni mondiali, oltre alla leadership del settore dell’imballaggio, emerge anche un’altra cosa interessante; la tecnologia di lavorazione delle materie plastiche più diffusa al mondo è quella dell’estrusione.
È dominante in qualsiasi Paese del mondo, copre il 40%-45% delle produzioni in plastica.
La seconda è quella dello stampaggio ad iniezione utilizzata nel 20%-25% delle produzioni in plastica (per approfondimenti su consumi e tecnologie nei paesi del mondo vedere www.euromap.org).
Il rapporto segmento/tecnologia è interessante se lo si collega alle tipologie e forme degli imballi presenti sul mercato. La tecnologia condiziona la ricerca sia sul fronte dei polimeri che su quello delle soluzioni geometriche, funzionali all’ottenimento del miglior recupero/riciclo degli imballi e dei materiali a fine vita. Specie quando il target è favorire l’economia circolare e la riduzione dei consumi delle materie prime.
Come abbiamo avuto modo di segnalare in precedenza, quello dell’imballaggio è il segmento che in questo momento sta pagando più di altri un tributo elevato a causa di una inadeguata politica di educazione dei consumatori. Una grande lacuna, che ha portato ad una catastrofe planetaria in termini di inquinamento del suolo e dei mari.
Oggi però è sicuramente il settore che, più di altri, sta attraversando un momento di grande fermento innovativo, che coinvolge tutta la catena del valore. Certamente, alla base c’è il fatto che il “Green Deal” europeo ha spostato pesantemente il focus sul recupero degli imballi. Fino ad oggi infatti non c’era mai stato un chiaro input per il recupero, o il riuso di questi prodotti. Per cui, la discarica o l’incenerimento erano le pratiche più utilizzate per il loro smaltimento. Questo nuovo indirizzo virtuoso sarà determinante per raggiungere l’obiettivo della riduzione dei consumi di materie prime vergini. Alcune grandi multinazionali del settore alimentare hanno già preso posizioni precise, dichiarando la loro ferma intenzione di ridurre entro i prossimi 10 anni il consumo di imballi in plastica e delle plastiche in genere.
Un impegno importante che coinvolge e condiziona tutti gli attori del segmento. Chi produce le materie prime dovrà renderle sempre meno impattanti dal punto di vista ambientale e sempre più performanti. Chi progetta gli imballi dovrà immaginarli riutilizzabili e, se realizzati con più di una materia prima, fare si che le diverse plastiche siano facilmente separabili in fase di smaltimento o recupero.
Gli imballi dovranno essere sempre meno complessi nella loro struttura, mentre diverranno funzionalmente sempre più prestazionali (es. utilizzando etichette “parlanti”), al fine permettere un corretta gestione del loro fine vita.
È certo che nei prossimi anni verranno introdotte leggi e direttive sempre più precise, per guidare la transizione e sostenere i progetti più meritevoli, che portino a sistemi più efficienti, riutilizzabili e/o completamente riciclabili.
Dal punto di vista delle materie prime impiegate, pur essendo quello degli imballi un segmento estremamente variegato in termini di forme e applicazioni, impiega solo cinque famiglie di materiali: Carta, Vetro, Alluminio, Plastica. Certamente ognuna di queste macro famiglie ha molteplici sottoprodotti. Nelle materie plastiche, di cui ci occupiamo, al momento sono ancora prevalenti i materiali fossili. Qui possiamo trovare: il Polietilene (PE) in tutte le sue declinazioni (HDPE, MDPE, LDPE, LLDPE), il Polipropilene (PP) omopolimero, copolimero, e random, il Polietilentereftalato (PET) e il Polistirolo (PS).
L’importanza del segmento per l’economia mondiale, come indicato, è strategica. Le materie plastiche restano fondamentali per sostenerne crescita e vitalità. Per questo motivo l’industria petrolchimica è fortemente concentrata sulla ricerca e lo sviluppo di nuove soluzioni (polimeri sostenibili) alternative più rispettose per l’ambiente. Materie prime alternative ai prodotti tradizionali, realizzate mediante la riconversione di impianti obsoleti, o grazie ad adeguamenti di quelli esistenti.
Come abbiamo visto il segmento degli imballi rigidi e flessibili è trainante per i materiali fossili, ma lo è anche per le nuove generazioni di Bioplastiche. Seppur con numeri ampiamente inferiori (per ora) rispetto ai materiali fossili, l’andamento dei consumi dei bio materiali è già assimilabile a quello dei prodotti tradizionali. Infatti, anche qui, più del 40% delle nuove materie prime vengono assorbite dal settore degli imballi rigidi e flessibili.
La corsa alla sostituzione dei polimeri fossili con materiali sostenibili è in pieno svolgimento.
La ricerca sta facendo passi da gigante, come sempre accade quando è ben focalizzata, nella realizzazione di monomeri simili a quelli fossili, ma derivanti da fonti biologiche rinnovabili.
Tra i polimeri biobased realizzati interamente da fonti rinnovabili, possiamo ricordare il bioPE (da zuccheri) e i bioPA (da olio di ricino). Soluzioni che hanno mostrato la via per la produzione di materiali che anziché avere un debito di CO2 e, per alcuni polimeri fossili arriva a essere 5 volte superiore il proprio peso, vantano un credito di due o tre volte il loro peso (es. bioPE= -3ton/ton).
Anche quelli parzialmente biobased e/o ibridi, propongono valori di CO2 inferiori di almeno il 50% rispetto ai loro fratelli fossili a parità di prestazioni tecniche. Tra l’altro questi prodotti consentono ai produttori di semilavorati di utilizzare gli stessi impianti produttivi, senza ridurne la produttività.
La nota dolente per ora è che la riconversione degli impianti di polimerizzazione da fossile a bio richiede degli investimenti e questi, ovviamente, si riflettono sui costi dei nuovi materiali.
Di positivo c’è però che l’Europa spinge per il cambiamento, la domanda di polimeri per l’imballaggio cresce e crescono i prezzi delle materie prime fossili. Tutto ciò crea i presupposti per rassicurare gli investitori sul ritorno degli investimenti necessari alla transizione verde. Inoltre le nuove materie prime biobased, anche se non degradabili o compostabili a fine vita, possono essere riutilizzate, o riprocessate, per ottenere nuovi manufatti esattamente come accade per le versioni fossili. Certamente sarà utile evitare che finiscano in un inceneritore o in una discarica a fine vita, per non vanificare il vantaggio acquisito.
Comunque, nonostante il focus particolarmente vivo sul riciclo e il riutilizzo degli imballi, sostenuto dai materiali biobased non degradabili, le materie prime completamente biodegradabili e compostabili stanno crescendo in quantità e in gamma di prodotti, trovando il loro sbocco naturale negli imballi per prodotti alimentari freschi, frutta e verdura.
Nella tabella qui esposta, vediamo come i materiali biobased compostabili più popolari nel mondo degli imballi siano: il PLA, il Polimeri Amidacei (100% bio), il PBAT e il PBS (bio al 50%).
Un contendente piuttosto interessante, anche se ancora marginale, è il PHA (o, la famiglia dei PHA) sul quale vale la pena tenere alta l’attenzione. Nei biobased non degradabili o compostabili, sarà interessante vedere l’evoluzione del nuovo PEF (Polietilene Furanoato), alternativo al bioPET.
Grazie alle tecniche di compoundazione, oggi si trovano sul mercato anche ottime soluzioni biodegradabili realizzate con un mix di due o più materiali. Si tratta di prodotti su misura formulati in funzione della tecnologia di trasformazione di interesse come lo stampaggio ad iniezione o l’inietto-soffiaggio (per sapere di più su queste tecnologie si vedano i blog che trattano di stampaggio a iniezione e iniezione soffiaggio.
Tra i settori che impiegano le tecnologie dello stampaggio ad iniezione e dell’inietto-soffiaggio per i loro imballi, c’è sicuramente quello della cosmetica; un settore con un grado di complessità in più rispetto agli altri. In genere in questo segmento coesistono due imballi, l’imballo primario (es. vasetto, flacone, ampolla, tubetto) che contiene il prodotto attivo (crema, gel, liquido, ecc…) e l’imballo secondario che protegge il prodotto finito (es. scatola, film trasparente); due mondi con esigenze molto diverse in termini di gestione del fine vita.
I prodotti finiti che fanno parte di questo segmento, a loro volta possono ricadere nelle categorie: bene non durevole o bene semi-durevole.
Nella scelta della materia prima per gli involucri primari, oltre gli aspetti tecnici specifici bisogna considerare anche il fatto che il prodotto finito potrebbe non essere utilizzato rapidamente e/o tutto in una volta. Potrebbe così restare sullo scaffale del negozio, o nell’armadietto di casa, per un certo tempo.
È abbastanza intuitivo quindi che gli imballi primari presentino le maggiori complessità. Variabili che andranno valutate attentamente quando si vorrà adottare un materiale biodegradabile e/o compostabile. Andranno ad esempio analizzate molto bene le sostanze chimiche di cui è costituito il prodotto nel contenitore. Il contatto prolungato con la materia prima bio, per un tempo non predicibile salvo quello indicato dalla data di scadenza, potrebbe alterare la chimica del materiale precludendogli, ad esempio, il compostaggio a fine vita (norma EN13432-2002).
Per converso, il contenuto dell’imballo potrebbe estrarre e/o assorbire, qualche composto meno stabile del polimero subendo una alterazione (es. colore, odore).
In questo segmento, la scelta del materiale per un imballo primario è quindi un passaggio delicato. Non c’è da stupirsi dunque se in questa prima fase della transizione l’industria sia orientata su prodotti Biobesed, o ibridi, non biodegradabili.
Oppure su polimeri fossili tradizionali ma con un elevato contenuto di materiale riciclato.
Entrambe le soluzioni possono infatti sostituire i prodotti tradizionali fossili riducendo sia l’impronta di carbonio del prodotto finito, che i rischi derivati da variabili legate alla resistenza chimica, all’effetto barriera, alla cessione/assorbimento di sostanze chimiche. Siamo comunque sicuri che nel tempo i produttori delle materie prime biodegradabili renderanno disponibili tutte le necessarie informazioni sulle proprietà e compatibilità chimico fisiche dei materiali, così come è accaduto in passato per i materiali fossili.
Per il momento, i produttori di cosmetici che desiderano trasformare i loro imballi primari da fossili a degradabili, o compostabili, non possono esimersi dal condurre i necessari test di compatibilità chimica sui contenitori.
Allora? Quando scegliere prodotti biodegradabili e compostabili?
A nostro parere per rispondere a questa domanda bisogna partire dalla fine.
Ovvero, bisogna domandarsi quale sarà la destinazione finale dell’imballo. Se l’imballo potrà rientrare agevolmente nel ciclo di recupero delle plastiche tradizionali, realizzarlo con materiali biobased, ibridi, o parzialmente riciclati, sarà la soluzione migliore che permetterà di ottenere una significativa riduzione del contenuto di CO2. del prodotto finito. Sempre che, vengano rispettate le normative tipiche del prodotto (es. il contatto con alimenti), o che non vi siano all’orizzonte leggi specifiche che spingano verso scelte differenti; come sta accadendo ai prodotti “usa e getta” (vedi normativa SUP).
Se invece, il prodotto finito è destinato ad un rapido impiego (ciclo di vita breve), è di largo consumo, è mono materico oppure è facilmente separabile da eventuali elementi non compostabili (“progettare per separare”), non è pesantemente contaminato chimicamente; allora la scelta migliore per questo imballo sarà quella di un prodotto biodegadabile e compostabile. Con questa soluzione verrà ridotto l’impatto ambientale (meno CO2) e offerto al cliente finale una opzione virtuosa, comprensibile, per lo smaltimento dell’imballo a fine vita.
Riteniamo che qualsiasi soluzione verrà adotta, in futuro sarà sempre bene realizzare una analisi LCA per poter comunicare alla clientela il traguardo ecologico raggiunto. Così come andrà comunicato sempre più e sempre meglio, il metodo di smaltimento preferito per quello specifico imballo.
Come sappiamo il settore della cosmetica ha bisogno di recuperare credibilità nei confronti dell’opinione pubblica. Le informazioni che sono circolate sullo stato di salute dei mari hanno portato alla ribalta il problema delle micro-perle. Micro-particelle polimeriche (in genere PE) con dimensioni da 1,0 mm a 0,01 mm, inserite nei prodotti per la cura della persona quali: shampoo, creme esfolianti, lozioni solari, creme idratanti e prodotti per il make-up. Queste particelle, non biodegradabili, hanno una caratteristica: quella di essere pronte all’uso, ovvero pronte al danno.
Quando si parla micro-plastiche, in genere ci si riferisce a frammenti plastici con dimensioni di c.ca 5mm. Un qualsiasi oggetto in plastica (es. una bottiglia), per ridursi a tali dimensioni deve restare in acqua per diversi anni. Le micro-sfere cosmetiche invece arrivano al mare rapidamente e già con una dimensione utile per entrare direttamente nel ciclo alimentare della fauna marina.
Nell’ottobre del 2015 l’associazione COSMETIC EUROPE ha raccomandato a tutti i propri membri di interrompere, entro il 2020, l’impiego di particelle sintetiche solide (le micro-sfere appunto), non biodegradabili in ambiente acquatico. Un processo di conversione al bio ancora in corso, che auspichiamo si completi rapidamente e definitivamente.
Nota: siccome siamo masochisti, in questi ultimi due anni abbiamo creato un nuovo e più grande pericolo per l’ambiente marino e per noi. A causa del Covid19 sono state introdotte sul mercato mondiale le mascherine protettive.
La maggior parte di esse è composta da micro-fibre di Polipropilene, tenute assieme da forze elettrostatiche (non c’è trama e ordito). Queste forze a contatto con l’acqua si ridurranno rapidamente liberando le fibrille che andranno a contaminare rapidamente l’ecosistema marino.
Come operatori delle materie plastiche non possiamo che restare basiti. Anche questa volta, come in passato, dei nuovi prodotti in plastica potenzialmente inquinanti, sono entrati nella disponibilità del pubblico senza una sola parola riguardo alla loro composizione e all’enorme rischio ambientale che possono comportare se non smaltite correttamente.
Ancora una volta senza un’adeguata educazione del pubblico.
Siamo così tornati di colpo nel passato. Agli anni dell’”usa e getta” che ci hanno portato alle isole di plastica nell’Oceano e alla demonizzazione delle materie plastiche. Questa volta andrà meglio, le isole non le vedremo (che fortuna) perché le micro-fibre ce le ritroveremo rapidamente e direttamente nel piatto, o nell’acqua potabile.
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Alessandra
Veramente il consumo di plastica nell’ambiente del packaging e dell’imballaggio ricopre un peso molto importante. Fortunatamente sempre più imprese stanno scegliendo di usare un packaging ecosostenibile per i loro prodotti.