BIOPOLIMERI E INDUSTRIA: I PRODOTTI MONOUSO
Pubblicato il: 24/06/2021
Come abbiamo già indicato negli articoli precedenti, il consumo di plastica è in costante aumento. Negli ultimi 50 anni è cresciuto del 2000% e si stima che raddoppierà entro il 2034 (>720 milioni di tonnellate).
Tuttavia c’è sempre stata un’ombra su questo bellissimo e positivo trend, un mancato piano di controllo efficace da parte delle industrie produttrici di polimeri e di tutta la catena del valore, sulla corretta gestione del fine vita dei prodotti immessi sul mercato, in particolare quelli definiti “usa e getta”.
Ovvero, un analisi lucida di ciò che le plastiche avrebbero potuto generare in termini di impatto ambientale, qualora mal gestite. Di fatto è ormai chiaro a tutti che è completamente mancata la formazione/educazione degli utenti finali.
L’Europa oggi ha posto condizioni precise, sempre più restrittive nel tempo e si sta adoperando molto a proposito del riciclo dei materiali plastici. Ma non solo. Non poteva più esimersi dal farlo, dato che il nostro Continente rappresenta una delle zone del mondo con un forte consumo di polimeri (>61 milioni di tonnellate).
Il problema non riguarda la parte produttiva, che ha raggiunto standard elevatissimi nella gestione del proprio rifiuto industriale, bensì nello smaltimento e nella ancora troppo alta dispersione di rifiuti (manufatti in plastica) nell’ambiente.
Dal grafico qui riportato si può notare come i volumi delle plastiche fossili a livello Europeo siano ormai stabili da un po’ di anni, con una leggera tendenza alla riduzione (2018 su 2017) e questo è un fenomeno che potrebbe continuare nei prossimi anni proprio in virtù dei cambiamenti richiesti dalla Comunità Europea.
Oggi sono sotto accusa le plastiche fossili e si punta al bio, ma se non cambierà il comportamento individuale a valle, non ci sarà biodegradabilità che tenga. Il problema resterà.
Anche alle plastiche biobased compostabili/biodegradabili, oggi l’1% del volume complessivo mondiale, occorrono infatti un certo numero di anni prima di disgregarsi (salvo rarissime eccezioni per ora) nel terreno o nell’acqua e certamente nessuno dei produttori desidera rafforzare questa cattiva abitudine che ha contribuito a lordare terre e fiumi.
Certamente le bioplastiche per decomporsi non richiedono centinaia di anni come è per i polimeri fossili i quali, quand’anche ridotti in frammenti sempre più piccoli, rappresentano un danno per tutta la fauna marina, come ben mostrato nel documentario Seaspiracy disponibile su Netflix.
Cresce nel mondo la preoccupazione per l’impatto sulla salute umana, rappresentato dall’accumulo di microplastiche fossili nell’organismo e dalle interazioni chimiche che esse possono generare all’interno del corpo umano.
Purtroppo ancora oggi e nonostante l’aumento in percentuale delle persone che si fanno domande sul tema dell’inquinamento da plastiche, stiamo ripetendo lo stesso errore del passato.
A causa della pandemia infatti, sono stati consegnati nelle mani dei cittadini di tutto il mondo, ausili (mascherine e guanti) senza la dovuta istruzione per il loro corretto smaltimento e ciò andrà inevitabilmente ad acuire quel problema che l’Europa cerca di arginare.
Comunque, l’opinione pubblica ha incominciato a interessarsi all’argomento e ad avere una posizione condivisa al riguardo, che speriamo ampli sempre più il livello di consapevolezza generale; da un recente sondaggio fatto in Europa, infatti, il 92% dei cittadini è favorevole alla riduzione della plastica monouso, l’87% risulta preoccupato per l’impatto che questa ha sull’ambiente e il 74% teme che possano esserci effetti negativi per la propria salute.
Questi numeri devono far riflettere gli operatori del settore.
Per tutti questi motivi la commissione europea nel Gennaio del 2018 ha lanciato la “Strategy for Plastics in the Circular Economy” in cui ha presentato i propri intenti volti a ridurre l’inquinamento dovuto alle plastiche monouso, seguita successivamente dalla direttiva SUPD (single-use plastics directive) del Giugno 2019, pubblicata questo mese.
A nostro parere questo faro puntato sulla categoria dei prodotti monouso è un segnale molto forte.
Non è focalizzato su una particolare composizione chimica (catena polimerica), o sulla mera quantità di merce venduta. È un segnale che riguarda tutti i settori industriali che focalizza l’attenzione sull’impatto ambientale delle materie plastiche, anche in termini di produzione di gas serra.
In particolare la CO2e, generata dai processi di produzione che, va ricordato, sono inferiori a quelli delle lavorazioni di materie prime tradizionali come il vetro, il metallo o il cemento.
Quello degli imballaggi in plastica, al quale sono ascritti i prodotti monouso, è in assoluto il settore che consuma più plastica al mondo (>40% del totale).
La direttiva UE sopracitata infatti, prende spunto dal fatto che la maggior parte dei rifiuti dispersi nell’ambiente (città, spiagge, ecc.) siano prodotti monouso in plastica.
Analizzando il ciclo di vita di questi prodotti ci si accorge subito di quanto il loro tempo di utilizzo sia irrisorio se comparato al tempo smaltimento; per questa ragione la Comunità Europea ha deciso di intraprendere una campagna dissuasiva, mirata al ripensamento di tutto il processo produttivo, distributivo e di smaltimento, dei prodotti finiti.
Si poteva evitare? Certamente!
Comunque, ormai la Direttiva c’è per cui dobbiamo confrontarci con essa e, possibilmente, capitalizzare su di essa.
È sicuramente una spinta a intraprendere un percorso di innovazione a 360° su questi oggetti, sulla loro distribuzione e il loro impiego, al fine di rendere il ciclo complessivo più longevo e meno impattante. La parola d’ordine, lo slogan, che emerge della normativa, non è più quindi “usa e getta”, bensì : usa e riusa.
Di quali prodotti stiamo parlando?
Il rapporto del SUPD (Single Use Plastic Directive) si concentra su dieci prodotti in plastica per il monouso, la maggior parte dei quali ampiamente utilizzata nel commercio al dettaglio di alimenti e bevande, ovvero:
- Bicchieri per le bevande da asporto (ad esempio il bicchierino erogato dalle macchinette del caffè)
- Contenitori per gli alimenti
- Contenitori per le bevande (ad esempio le bottigliette d’acqua)
- Posate, piatti e bicchieri (la classica “mise en place” usa e getta per i picnic)
- Cotton fioc
- Palloncini
- Mozziconi di sigarette
- Buste di plastica
- Sacchetti per alimenti (tipo i pacchetti delle patatine)
- Salviette umide
Proviamo a dare una dimensione numerica al fenomeno, per rendere più tangibile il problema, analizzando i primi quattro oggetti della lista.
1) I bicchieri per bevande d’asporto, normalmente fabbricati in polistirene espanso (EPS) o tramite un misto di cellulosa all’esterno e polietilene all’interno. Pesano circa 1,5 gr. e, solo in Germania, questi prodotti creano 28 mila tonnellate di immondizia/anno. Ma soprattutto, solo il 15% del volume totale del materiale viene gettato nei cestini pubblici. Il progetto europeo prevede di vietare l’uso di EPS entro Luglio 2021 e di indicare su tutti i bicchieri che un inadeguato smaltimento della plastica causa impatti negativi sull’ambiente.
2) I contenitori alimentari solitamente sono composti da polipropilene, o da polistirene, quando sono interamente di plastica. Le varianti in carta, invece, presentano un film di polietilene e di alluminio su una delle superfici. Ultimamente hanno preso piede anche soluzioni con biopolimeri e con polimeri biodegradabili o compostabili. Anche in questo caso, buona parte del problema risiede nei numeri: Inghilterra, Germania, Italia e Spagna sono infatti tra le 13 nazioni in cui si consuma più cibo d’asporto al mondo. Per fare un paragone, negli Stati Uniti (c.ca 330.000.000 di abitanti) vengono usati oltre 7,5 miliardi di contenitori, mentre in Inghilterra (c.ca 66.000.000 di abitanti) la cifra ammonta a 1,8 miliardi; facendo un rapido calcolo sugli abitanti presenti in questi due territori ci accorgiamo subito della disparità fra i due paesi. Anche in questo caso da Luglio 2021 sarà vietato l’EPS (Polistirolo espanso), mentre dal 2024 gli stati membri dovranno adottare programmi EPR (Extended Producer Responsibility) che attribuiscano piena responsabilità finanziaria da parte dei soggetti della catena del valore delle materie plastiche, per il pagamento dei costi di pulizia, gestione dei rifiuti e, non ultimo, la sensibilizzazione.
3) Le bottiglie per bevande, come quelle per l’acqua, vedono l’Italia come la principale produttrice e consumatrice, con quantità che superano tutti gli altri singoli stati d’Europa. Le indicazioni di mercato dicono che ogni anno in Europa vengono consumate 46 miliardi di cui 18 miliardi sono a carico dell’Italia.
Questi prodotti sono realizzati in PET (polietilene tereftalato) e in HDPE (polietilene ad alta densità). Oltre alle bottiglie, anche tappi e etichette in plastica sono tra gli oggetti maggiormente rinvenuti nelle spiagge di tutta Europa, numeri che non sorprendono dato il quantitativo di bottiglie prodotte. Anche in questo caso l’UE ha previsto l’adozione di programmi EPR per le aziende produttrici e l’introduzione dell’obbligo di avere, entro il 2024, coperchi o tappi che rimangano attaccati alla bottiglia durante l’uso.
4) Infine troviamo le posate e piatti usa e getta. Dal rapporto che ha portato alla definizione della Direttiva per le Plastiche Monouso (SUPD), questi risultano essere fra i sette oggetti più comunemente abbandonati nelle spiagge d’Europa e tra i più letali per gli animali come tartarughe, gabbiani e mammiferi. Per questi articoli la UE vieta la vendita di qualsiasi polimero da Luglio 2021, per cui prossimamente vedremo solo articoli in bambù o fatti di cartone.
Nota: non sono più ammessi anche i materiali oxodegradabili e i PHA in quanto non considerati plastiche naturali.
L’organizzazione “Break free from plastic” da tempo sta raccogliendo, analizzando e classificando i rifiuti, per quantità e marchio.
Secondo questa logica, più le multinazionali hanno successo nella vendita, maggiore è la loro responsabilità nell’inquinamento del pianeta e maggiore dovrà essere il loro impegno per ridurre l’impatto della plastica utilizzata nei loro imballi.
Ancora una volta cittadini e sistemi organizzativi dei paesi inquinati, non sono considerati co-responsabili https://www.breakfreefromplastic.org/globalbrandauditreport2020/.
Questa situazione è figlia proprio di quella mancanza di attenzione che avrebbe dovuto esserci sin dall’inizio, riguardo il fine vita dei prodotti.
Come affrontano il problema i vari stati europei?
Ad ogni nazione è stato dato quindi l’arduo compito di implementare e rendere stimolante l’iniziativa sia ai produttori, che devono trovare altre modalità di produzione, sviluppare prodotti meno complessi che ne facilitino il riciclo e metodi innovativi di utilizzo/riutilizzo, sia ai consumatori. La cui collaborazione di quest’ultimi è essenziale per la buona riuscita del progetto. Occorre assolutamente coinvolgerli affinché siano disposti a modificare favorevolmente le loro abitudini.
È auspicabile che anche i governi locali implementino punti di raccolta smart, in grado di suddividere a priori le differenti plastiche gettate nel contenitore dei rifiuti. Ne aumentino il numero in base alle esigenze/dimensioni dei quartieri e attivino strategie innovative (non solo basate su tasse) per incentivare la raccolta virtuosa.
Alcuni esempi di approccio nazionale al problema
Italia: con la legge di delegazione europea 2019-2020, l’Italia ha recepito la direttiva 2019/904 sulla riduzione dell’incidenza di determinati prodotti di plastica monouso.
Dal 3 luglio non saranno più ammessi piatti in plastica fossile (PP e PS) che dovranno essere trasformati in materiale naturale (carta, cellulosa, legno).
Una deroga alla direttiva prevede però che in Italia possano ancora essere impiegate plastiche compostabili per le stoviglie monouso, consentendo un passaggio graduale alle plastiche completamente naturali, come definite dalla nuova direttiva. Fermo restando l’impegno alla riduzione delle applicazioni monouso in favore di quelle riutilizzabili.
C’è da tenere presente che l’Italia è il principale produttore di articoli monouso in plastica. Solo nel settore delle stoviglie “usa e getta” (piatti, bicchieri, posate, cannucce e mescolatori) operano almeno trenta aziende che occupano circa 3.000 dipendenti.
Francia: dall’inizio del 2020 è stato proibito l’uso di prodotti monouso in plastica negli esercizi di somministrazione e a partire dal 2023 ci sarà l’obbligo di adottare prodotti riutilizzabili. Inoltre, dal 2022 ogni edificio pubblico si dovrà dotare di una fonte d’acqua potabile collegata alla rete.
Germania: stanno lavorando ad una legge che introdurrà l’obbligo per gli esercenti di mettere a disposizione contenitori riutilizzabili dal 2023.
Austria e Paesi Bassi: si stanno adoperando per introdurre una tassa sui prodotti monouso in plastica o, in alternativa, obbligando gli esercizi commerciali a introdurre una maggiorazione per tali articoli (un po’ come la tassa obbligata sui sacchetti per la spesa in Italia).
Come detto, per risolvere il problema, oltre al sostegno delle nazioni serve anche il contributo delle aziende, che si devono adoperare per trovare soluzioni innovative al riguardo. Tra le idee che stanno via, via venendo alla luce, segnaliamo:
- Uno studio fatto presso uno Starbucks di Londra. L’analisi prevedeva l’applicazione di sconti per i clienti che decidessero di utilizzare bicchieri riutilizzabili e, al contrario, una maggiorazione per coloro i quali continuassero a preferire prodotti usa e getta. Dallo studio realizzato è emerso un apprezzamento per l’iniziativa da parte degli utenti ed un aumento dell’utilizzo di bicchieri riutilizzabili.
- L’azienda CupClub, sempre in Inghilterra, ha realizzato una serie di bicchieri dotati di sensori RFID, così da poterli rintracciare all’interno di aree chiuse. Il prodotto è rivolto soprattutto ad aeroporti, università, concerti e festival in cui, mediante queste strategie, è possibile offrire dei prodotti riutilizzabili ai propri clienti senza temere che questi siano dispersi nell’ambiente.
- In Germania ha preso piede un’azienda di nome ReCup che fornisce bicchieri riutilizzabili in polipropilene. Il cliente, pagando un deposito di solo 1 €, riceve la sua bevanda all’interno di uno di questi contenitori riutilizzabili che una volta restituito, presso un esercizio commerciale qualunque della rete di negozi che collaborano a questa iniziativa, viene lavato e rimesso sul mercato.
- Seguendo lo stesso schema l’azienda ReCircle ha proposto un servizio di “noleggio” di contenitori riciclabili per il consumo di cibo d’asporto in Svizzera e Germania.
Entrambe le aziende hanno sottolineano che l’adozione di questi servizi da parte di catene di negozi porta ad una maggiore lealtà verso i brand e ad un miglioramento dell’esperienza del cliente tramite l’uso di contenitori più alla moda. - L’azienda Berglandmilch, la più grande produttrice di latte in Austria, è tornata a consegnare i propri prodotti in bottiglie in vetro da 1L, come si faceva una volta anche in Italia.
Conclusioni
La ricerca della soluzione migliore è appena partita, ma l’enfasi creata dalla UE ha messo in moto le migliori intenzioni e le migliori menti creative delle diverse aziende e i risultati non tarderanno ad arrivare.
Come abbiamo segnalato più volte, per risolvere questo problema è ormai necessario partire dalla fine. Immaginare cioè la soluzione partendo dal fine vita. Quale dovrà/potrà essere “il fine vita” del mio prodotto? Non dimenticando però anche l’altro obiettivo importante: la Carbon Footprint del prodotto. Ovvero il carico di CO2e che la soluzione ideata potrà generare.
L’esempio dell’azienda austriaca che torna a proporre bottiglie di vetro per il latte, non è a nostro parere la strada migliore per una CFP favorevole.
Oltre al peso in CO2e che il vetro si porta a bordo dalla sua produzione, si somma anche il peso nel trasporto (kg/m3). Inoltre, il lavaggio delle bottiglie implica un ingente consumo di acqua.
Questa scelta aziendale non tiene ovviamente conto dei progressi esponenziali che si stanno facendo nel recupero dei materiali plastici e nella loro progressiva bio-conversione.
Grazie alla rapida evoluzione tecnologica che sta avvenendo nel settore del riciclo, si potranno utilizzare sempre più materie plastiche riciclate e in percentuali sempre maggiori. I materiali biobased, sia quelli compostabili che quelli riciclabili, ridurranno sempre di più il carico di CO2e (grazie al contenuto di carbone verde) mantenendo tutte o gran parte delle proprietà tecniche necessarie per le diverse applicazioni, quelle tipicamente offerte dai polimeri completamente fossili.
Certamente siamo in una fase di transizione, per cui i produttori di oggetti monouso e non, dovranno rivedere quanto prima i propri prodotti nella direzione di soluzioni (materie prime e sistemi) sempre più eco sostenibili.
È fondamentale reinventare il segmento del monouso, mantenendo i valori di praticità e igiene (un valore importante in questo momento storico) ma rendendolo più virtuoso e meno impattante ecologicamente.
Ma non basterà trovare il materiale più “eco” se non si proporranno anche modelli applicativi integrati e completi. Saranno i nuovi modelli ad evitare eventuali future direttive più restrittive dei legislatori. Crearli e proporli a livello di Commissione Europea è il compito delle imprese e delle associazioni che operano in questo settore.
Certamente l’impiego di materiali compostabili o biodegradabili per gli oggetti dal ciclo di vita breve è una grande opportunità, come lo è l’utilizzo di polimeri e compound a base di plastiche riciclate o biobased, per gli oggetti più longevi e riutilizzabili.
Resta il fatto che tutto questo non permetterà una vera svolta sino a che non ci sarà un cambio di passo a valle della catena, al livello dei consumatori.
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